C’è una sottile ironia, amara, nella recente campagna lanciata dalla Fondazione Capellino che con una bella frase a effetto, costruita più sull’emozione che sulla ragione, afferma perentoriamente che “Niente giustifica la caccia” …
A sostegno un video altrettanto emozionale, sapientemente confezionato, fatto girare sulle principali reti TV e sui social, legato anche a una petizione, promossa sempre dalla stessa Fondazione, per chiedere al Parlamento di attivarsi contro il Ddl di modifica della legge 157 attualmente in discussione.
Un’operazione di comunicazione ben orchestrata, costruita per colpire la sfera emotiva del pubblico e per ribadire un messaggio assoluto, netto, apparentemente morale.
Eppure, dietro quella frase a effetto, si nasconde una contraddizione così evidente da risultare quasi grottesca. La Fondazione Capellino, infatti, è l’unica proprietaria del marchio Almo Nature, un’azienda che produce e vende alimenti per cani e gatti a base di carne e pesce.
Non solo pollo, manzo o salmone, ma anche cinghiale, cervo, anatra e tonno: ingredienti che, in natura, derivano tutti da animali cacciati o allevati per essere macellati.
In altre parole, chi oggi demonizza la caccia costruisce la propria attività economica e il proprio profitto – assolutamente legittimo, intendiamoci – e dunque la possibilità stessa di finanziare le proprie campagne, sul consumo di altri animali.
La differenza? Solo una questione di percezione.
Un aspetto che Federcaccia ha sottolineato immediatamente all’uscita della campagna in questione e nei giorni successivi rilanciato insieme a Fondazione Una.
Viviamo in un’epoca in cui il rapporto dell’uomo con l’animale è stato stravolto: quelli selvatici, alcune specie in particolare, sono totem intoccabili, al limite della venerazione; quelli domestici vengono umanizzati, li si veste, si portano nel passeggino, si trattano come figli.
Non sono più compagni o aiuto nelle attività quotidiane, ma proiezione affettiva, surrogato emotivo, talvolta persino sostituto di relazioni umane.
L’animalismo da salotto, quello delle campagne virali e dei post indignati, dimentica che la vita, in natura, è sempre stata equilibrio fra preda e predatore, fra nascita e morte.
La caccia, quella vera – regolamentata, selettiva, rispettosa dell’ambiente – è parte di questo equilibrio.
È gestione, conoscenza, cultura.
È un modo di vivere il territorio che presuppone rispetto e competenza, non crudeltà.
Il cittadino medio, ormai in larga parte urbano e urbanizzato, lontano dai boschi e dalle campagne, ha perso contatto con la filiera del cibo e con i cicli naturali.
Pet food a parte, chi si indigna per la caccia spesso non si pone il minimo problema a mettere nel carrello la carne impacchettata con immagini rassicuranti, presentata in modo “etico” e asettico, sugli scaffali della grande distribuzione.
Eppure, dietro ogni bistecca per la nostra tavola o ogni scatoletta per la ciotola del nostro cane o gatto, c’è sempre la vita di un animale, solo che la responsabilità morale è diluita e invisibile, delegata ad altri.
Una comoda contraddizione che profuma di incoerenza morale e marketing ben confezionato.
Il cacciatore, invece, affronta la realtà senza ipocrisie.
Sa che ogni prelievo comporta una vita che si interrompe, e proprio per questo rispetta la preda, la natura e le regole.
Sa distinguere fra conservazione e sterminio, fra necessità e spreco.
Difendere la caccia non significa non amare o, peggio, disprezzare gli animali, ma riconoscere il loro posto e il nostro nel ciclo naturale.
Significa accettare la responsabilità di un gesto antico che, se compiuto con etica e misura, contribuisce a mantenere gli ecosistemi, alla gestione delle specie, alla conoscenza del territorio.
È un rapporto diretto e onesto con la natura, consapevole e non mediato, lontano dalle comode illusioni di chi crede basti un hashtag o una condivisione su Facebook per essere “etico” e lavarsi la coscienza.
Forse sarebbe il caso che tutti, aziende e consumatori, prima di lanciare campagne moraliste, facessero i conti con la coerenza delle proprie scelte.
Perché, alla fine, niente giustifica l’ipocrisia.
* Dalla settimana scorsa la caccia alla lepre nell’ATC Brescia è chiusa, per effetto del dispositivo che imponeva il blocco se non veniva dichiarato il prelievo di almeno l’ottanta per cento del piano di prelievo concesso.
Come sempre accade anche questa decisione porta con sé qualche polemica per i tempi, e per l’anticipo di un mese rispetto alla chiusura normale; vorremmo però assieme fare due considerazioni.
Qualcuno dice che forse ci potrebbe essere una discrepanza fra i dati di prelievo comunicati, in meno, e quelli effettivamente conseguiti e segnati sul tesserino venatorio, in più.
Questo, se vero, sarebbe un farsi male da soli perché, se fosse stato segnato l’ottanta per cento dei prelievi, oggi verrebbe continuata la caccia alla lepre fino alla scadenza naturale.
La seconda considerazione riguarda invece gli effetti della chiusura; crediamo che, se sono rimaste sul territorio un buon numero di lepri, queste sono sicuramente molti importanti rispetto alle possibili risultanze per l’anno prossimo, essendo ormai ambientate ed in grado di meglio riprodursi.
Con la caccia alla lepre chiusa rimane comunque aperta la possibilità di prelievo delle volpi, anche con l’ausilio del cane segugio, in squadre organizzate sul territorio.
Ed è quello che i nostri soci aspettano di poter fare, appena il decreto di autorizzazione di UTR in risposta alla richiesta di ATC Brescia sarà diramato, anche per poter predisporre un ambiente più accogliente per la selvaggina dei futuri ripopolamenti.

